
«I fatti non cessano di esistere solo perché vengono ignorati». Lo scriveva a metà del secolo scorso il filosofo britannico Aldous Huxley.
Forse, anzi quasi sicuramente, Huxley non pensava alle complesse vicende del fronte orientale, né tanto meno alla storia – allora sconosciuta e taciuta – delle foibe e delle migliaia di italiani che tra il 1943 e il 1945 trovarono la morte negli “inghiottitoi” del Carso.
I fatti, tutti, sopravvivono al silenzio degli studiosi e della politica. Persino al silenzio della “ragion di stato”, che per 50 anni non ha permesso che di quei morti si parlasse, che quei morti venissero pianti pubblicamente, che venisse concesso loro il giusto “ricordo”.
La Jugoslavia, “quella” Jugoslavia che con il Maresciallo Tito aveva rivendicato l’indipendenza dalla sfera del blocco sovietico e del Patto di Varsavia rappresentava per l’occidente un interlocutore privilegiato. Da non mettere in imbarazzo.
Forse oggi ci appare lontano quel mondo diviso in due blocchi, con un muro nel cuore dell’Europa e due mondi, culture, forme di governo diverse e opposte. Chi ha qualche capello grigio più di me ricorda certamente quel clima e forse rilegge oggi quelle vicende e quel silenzio con gli occhi di una real politik che ha governato molte delle vicende del dopoguerra.
Eppure le storie di quei morti sono uscite dal confine, hanno viaggiato sulle strade, sono entrate nelle case. E a portarle sono stati gli esuli, che dall’Istria, dalla Dalmazia, da Fiume sono arrivati nelle nostre città.
Trecentomila persone lasciarono le loro case e ricostruirono affetti famiglie e comunità in città nuove, che spesso non erano preparate ad accoglierli. È successo anche qui: a Lucento, alle Casermette di Altessano – e lo abbiamo visto nella potenza delle immagini di Muro Vallinotto nella mostra fotografica ospitata qualche mese fa al Castello sui diritti dei bambini.
Isole di Istria trapiantate a Torino negli anni Cinquanta e Sessanta.
Ma non era una storia che entrava nei manuali, nei programmi di scuola.
Servì mezzo secolo per sdoganare quelle vicende. Ci pensò, come spesso accade, la letteratura. Che non dimentica e quando può racconta e smuove le coscienze.
Nel 1992 lo scrittore friulano Carlo Sgorlon pubblicava “La foiba grande”, romanzo che mette in scena il dolore dell’esilio, l’incubo della morte e le vicende di una guerra dimenticata attraverso le partenze e i ritorni di un giovane uomo che non sa più riconoscere la sua terra.
Poi fu la volta, se non del merito almeno del coraggio, di Luciano Violante e Gianfranco Fini.
A Trieste nel 1998 il presidente della Camera e il segretario di Alleanza nazionale ne parlarono pubblicamente, all’università, rispondendo alle domande degli studenti.
Non mancarono critiche, scomuniche, prese di posizione. Ma arrivò anche e soprattutto una considerazione nuova, che ovvia non era mai stata: i morti delle foibe non erano e non sono né di destra, né di sinistra.
Sono cittadini vittime della storia italiana di quegli anni: della guerra di Liberazione e del secondo dopoguerra, di una stagione che ci ha visto combattere con la parte sbagliata alleati con la Germania nazista, che ci ha fatto conoscere gli errori e gli orrori del regime fascista che hanno avuto una grande parte di responsabilità in quella tragica vicenda.
Ma quei cittadini non avevano colpe – come la stragrande maggioranza delle vittime delle guerre di ieri e di oggi – e come tali, vanno ricordati e rispettati.
Non furono, quelle italiane, le uniche vittime di una storia dimenticata.
La vicenda delle foibe e dell’esodo non può essere avulsa dal contesto storico e politico in cui si è sviluppata, per questo va inserita a pieno titolo nella storia dei vinti, in una guerra che non poteva certo dirsi conclusa per tutti il 25 aprile 1945.
È successo anche a 12 milioni di tedeschi, perseguitati uccisi ed espulsi dall’Europa orientale dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Furono 400.000 a essere espulsi dalla Romania, 200.000 dalla Jugoslavia, 170.000 dall’Ungheria.
Otto i milioni di tedeschi costretti a lasciare Slesia, Pomerania, Cecoslovacchia e Polonia orientale.
Le vicende della frontiera adriatica non sono che un pezzo della storia d’Italia e degli italiani, in una delle sue stagioni più drammatiche e sofferte.
Le vicende della frontiera adriatica non sono che un pezzo della storia più grande della Seconda Guerra Mondiale.
Ma tutto questo non può essere una scusante per l’oblio che abbiamo riservato alle vittime.
Fu – come ha avuto modo di dire più volte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella – una «sciagura nazionale alla quale i contemporanei per superficialità o per calcolo non attribuirono il dovuto rilievo».
Una storia non così lontana dall’oggi.
Trieste è stata ed è terra di confine. Da Trieste passarono ottanta anni fa i profughi italiani che la Jugoslavia non voleva e che di quella Jugoslavia gli italiani non si sentivano e non volevano sentirsi parte.
Oggi da Trieste passano altri profughi, cacciati dalle loro case oppure che le loro case hanno dovuto abbandonare per vivere, per sopravvivere e in molti casi per salvarsi la vita.
Arrivano dall’Afghanistan, dal Pakistan, dalla Turchia e dall’Iraq. Arrivano a piedi, dopo aver percorso la “rotta balcanica” e cercano accoglienza, umanità. Spesso cercano “solo” di passare, per andare altrove, dove magari c’è già un fratello, un figlio, una madre.
Fino a poco tempo questi profughi dormivano in un silos, un grande capannone abbandonato vicino alla stazione ferroviaria, che a Trieste – e per Trieste – non è un posto qualunque. Nato come deposito per le merci in arrivo e in partenza dalle banchine asburgiche, durante la Seconda guerra mondiale era il luogo di raccolta dei condannati che partivano per i campi di concentramento in Germania e in Polonia.
Dopo il conflitto divenne il luogo dove venivano radunati i profughi dall’Istria e dalla Dalmazia.
Ma, qualche mese fa, circa 180 persone sono state allontanate anche da quel silos. E ora dormono per strada, in tende o in sacchi a pelo all’aperto perché non hanno un altro posto dove andare.
Come gli italiani del confine orientale nel 1943, anche loro sono persone vittime di una guerra, nel posto e nel momento sbagliato.
Sergio Muro, 8 febbraio 2025

